Ho iniziato questa newsletter da qualche mese con l’obiettivo di dare spazio alla mia voglia di parlare di questi temi.
Ho toccato molte tematiche, ma non ho mai parlato del dolore.
Quando si parla di morte il dolore è sicuramente il protagonista.
E non possiamo fingere che non ci sia.
Da qualche anno esiste un movimento Death Positive, persone, soprattutto addetti ai lavori, che promuovono una visione aperta della morte, per incoraggiare la rimozione del tabù favorendo una maggiore consapevolezza e preparazione.
Parlare di morte, affrontarla, vuol dire a poco a poco toglierle quel contorno spaventoso che sembra avere. E sono certo che comprendere e accettare la morte possa migliorare la vita, ma in nessun modo questa cosa può passare attraverso la negazione del dolore.
Riconoscere un valore al morire non significa minimizzare o negare il dolore, ma piuttosto accoglierlo e affrontarlo apertamente.
Ed è giusto anche parlare del dolore e del lutto, perché parlarne ci può aiutare ad elaborare le emozioni in modo più sano e significativo.
Può sembrare forse contraddittoria la fascinazione per la morte. Qualcuno potrebbe essere portato a pensare che riconoscerla, rispettarla, comprenderla dovrebbe portare a non temere il dolore. Ma ovviamente non è così.
Io ho un esempio, forse un po’ stupido, ma per me esemplificativo, che di solito porto alle persone che mi fanno questo appunto.
Immaginate per un attimo la persona che più amate. Da un giorno all’altro vi comunica che ha deciso di andare dall’altra parte del mondo a vivere con una tribù indigena che rinnega la modernità, non potrete in alcun modo comunicare con lei. Vi dice che, grazie a questo cambiamento, sarà la persona più soddisfatta, completa e felice dell’Universo, che vi ama tanto, ma ora deve proprio andare. E va.
Voi sapete che questa persona è viva, da qualche parte lontano da voi, sapete che sta bene, che è completa e felice, ma il distacco sarà comunque per voi molto forte e doloroso. Lacerante.
Immaginare che dall’altra parte ci sia qualcosa, sentire, credere che non finisca tutto qui, mettere insieme piccoli pezzi di un puzzle più grande di noi, non cancella il nostro dolore. Ed è “giusto” così.
E poi quante morti ingiuste ci sono? Quante persone vengono strappate troppo presto?
Come sempre il tema è complesso. Abitiamo la complessità, ma siamo continuamente spinti a semplificare, riassumere, andare veloci.
Trovare una strada per parlare di morte non vuol dire non riconoscere che ci sono tante troppe domande a cui non sappiamo rispondere.
Parlare di morte vuol dire iniziare a fare luce dove luce non c’è. Vuol dire avere davanti un corridoio lunghissimo da percorrere e spesso non abbiamo la forza per percorrerlo tutto.
Questo dolore, intrinseco al lutto, è un compagno ineluttabile nel viaggio della vita. Ma cosa significa davvero convivere con esso? Come possiamo riconoscerne il peso senza esserne schiacciati?
Forse provare a guardare alla morte non come un nemico da temere, ma come una parte naturale e inevitabile della nostra esistenza, può essere un inizio.
Il dolore, nella sua crudezza, ci pone di fronte alla nostra vulnerabilità. Ci costringe a fare i conti con la fragilità della nostra esistenza e con l’imprevedibilità del destino. Non possiamo sfuggire al dolore, ma possiamo scegliere come affrontarlo. Possiamo decidere di viverlo in modo consapevole, permettendo a noi stessi di sentirlo in tutta la sua intensità, per poi trasformarlo in qualcosa di profondamente umano e significativo.
E soprattutto possiamo lavorare una vita intera per prepararci a riempire i vuoti dolorosi lasciati dalle assenze. Li possiamo riempire con i ricordi, le consapevolezze, la certezza che la separazione fisica con i nostri cari non distrugge il legame che abbiamo con loro. Che abbiamo, non che abbiamo avuto.
È un invito a vivere una vita più autentica, consapevoli che ogni momento è prezioso.
L’amore è. Il ricordo è. La connessione rimane. E se impariamo davvero a guardarci dentro, tutto questo, lo possiamo sentire con grande e incredibile chiarezza.
Lo scorso anno ha lasciato il suo corpo fisico mia nonna.
Ricordo quell’esperienza come una delle più potenti della mia vita.
Aveva 97 anni, le sue condizioni si sono aggravate e sono corso a casa da Milano, dove vivo, per poterla salutare.
Quando sono entrato nella sua stanza, lei non mi ha riconosciuto. Non era mai successo. Ricordo che mi aveva fatto molto effetto.
Poco dopo, si era rimessa a dormire. Quando si è risvegliata, io ero ancora lì, accanto al suo letto. Ha aperto gli occhi, mi ha visto e questa volta mi ha riconosciuto subito, ha sorriso e con le pochissime forze che aveva, ha provato con fatica ad alzare le braccia per abbracciarmi, dicendo il mio nome.
Quel gesto. Quell’abbraccio, quello sguardo. Quel momento, è stato il più bello della mia vita. Quel gesto, quella forza che ha trovato per abbracciarmi, vale l’esistenza intera.
E mia nonna, in quel momento, con quel gesto, ha saputo insegnarmi nei fatti, una frase celebre “il dolore è il prezzo che paghiamo per aver amato”.
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